Abstract

In questo mio intervento intendo proporre, quale chiave interpretativa dell’intera opera carceraria di Gramsci, il tema della “cautela”, o meglio delle “cautele”, attribuendo a questo termine una gamma di accezioni in parte differenti e in parte sovrapponibili tra loro, e comunque riconducibili al dato di fatto, evidente agli occhi di tutti ma forse proprio per questo non sempre tenuto nella dovuta considerazione, che tali scritti sono stati composti nel corso di poco più di dieci anni trascorsi dal loro autore in condizioni di restrizione più o meno totale della libertà: dall’arresto (8 novembre 1926) al confino di Ustica (7 dicembre), dalla detenzione in attesa di processo (7 febbraio 1927) alla carcerazione vera e propria nel penitenziario di Turi (19 luglio 1928), dal ricovero in clinica dapprima in stato di detenzione (7 dicembre 1933) e poi di libertà condizionale (25 ottobre 1934), fino alla morte, sopraggiunta poco dopo avere riacquistato la piena libertà (27 aprile 1937). In particolare concentrerò la mia attenzione sui Quaderni del carcere, composti tra il febbraio 1929 e la metà del 1935, utilizzando l’epistolario e le altre testimonianze sull’esistenza carceraria di Gramsci come indispensabili fonti di informazione sull’entità, le forme e le ragioni di tali cautele. Lo scopo della mia ricognizione è mostrare come la prudenza adottata dal prigioniero sia nella stesura sia nella valutazione della propria opera, che per di più teme destinata a una fruizione prevalentemente postuma, richieda altrettanta prudenza da parte di chi la legge e la interpreta, allo scopo di evitare di “sollecitare i testi”, vale a dire, come scrive lo stesso Gramsci nei Quaderni, “far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono”, compiendo così un “errore di metodo filologico [che] si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita”.

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